Forse sarà il caso che qualcuno spieghi a Di Canio che si può essere laziale senza essere romano, ma non viceversa. Si può essere virili senza fare i duri, ma chi è duro non è detto che sia per forza virile. Che si può essere razzista senza essere fascista, ma è davvero difficile credere possibile il contrario. Il paradosso non è stato mai contemplato dalle ferme certezze littorie.
Il mio amico Mariano, che conserva ancora la foto di Stalin nella sua carta d’identità, diventa patetico e anacronistico nel suo saluto col pugno. Fa quasi tenerezza. La mano tesa di Di Canio, invece, è arrogante. E’ pericolosa, perchè sottolinea al branco un’appartenenza. Il suo, in pratica, non è il coraggio di un pavido, ma l’ostentazione di un gesto che non cade nell’indifferenza, ma trova un riscontro nella curva degli ultrà.
La verità è che simbologia e cerimoniale del ventennio furono mutuati dall’antica Roma e gli odierni atteggiamenti dei bulli pariolini vorrebbero essere ricondotti a quei fasti, piuttosto che all’applicazione macchiettistica del regime. Ma è altrettanto vero che il flusso di gruppi e gruppetti di quartiere, autodefiniti di destra, si ritrovano da tempo sotto le insegne laziali.
Roma ha sempre avuto due anime. Sin dalle elementari ci hanno raccontato di una Roma patrizia e di una plebea. Tra i gentili quel cerimoniale si diffuse. E i patrizi è opinione diffusa che fossero laziali, non romanisti. Ad esaltarli era l’aquila imperiale. Così come gli odierni gentili, benché figli della lupa, si riconoscono meglio nell’aquila bianco-celeste. Per questo si esaltano nella tensione di un saluto, credendo di affermare una superiorità persa nei secoli e frustrata nella quotidianità contingente.
Ora, assodato che Mussolini non era Giulio Cesare e che le squadre in camicia nera nulla avevano in comune con le legioni romane, forse si rischia il ridicolo e l’esagerazione nel fare di Di Canio un novello gladiatore.
Tra le più antiche tradizioni popolari quella dello sberleffo è certamente la più dissacrante. Pertanto, potrebbe succedere che al prossimo braccio teso, occhi sgranati e urlo sguaiato, faccia eco in tutto lo stadio una lunga, sonora e tonificante pernacchia. Sarebbe un rito liberatorio per tutti e forse potrebbe scoraggiare ogni ulteriore irrigidimento, dentro e fuori l’arena.