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13/2/2006

PAOLO BORSELLINO, ESSENDO STATO
Un spettacolo altamente educativo al "Luigi Rossi" di Torremaggiore
Il 16 Febbraio presso il Teatro Comunale “L.Rossi” verrà messa in scena la rappresentazione teatrale PAOLO BORSELLINO, ESSENDO STATO. Lo spettacolo affronta un tragico fatto di cronaca, scegliendo come punto di partenza quel decimo di secondo che precede la morte di Paolo Borsellino, ripercorrendo a ritroso la sua vita, i suoi sogni, le sue paure, fino a diventare una profonda riflessione sull’esistenza.
Il giudice palermitano, rappresentato da Massimo De Francovich, incarna l’eroe moderno, che si batte contro la corruzione in nome dei suoi ideali, della giustizia.
Una tragedia dei nostri giorni, un tema attuale ed un testo altamente educativo. Proprio per questo, quest’opera teatrale può essere proposta all’attenzione degli studenti delle diverse scuole cittadine e non solo. In pratica, sia pure in orari extrascolastici e in piena autonomia, è fortemente consigliata la loro partecipazione allo spettacolo.
Per favorire l’avvicinamento dei giovani al mondo del teatro, il Comune di Torremaggiore con i Servizi Culturali, il Sindaco e l’Amministrazione Comunale, hanno previsto, per i giovani al di sotto dei 25 anni di età, dei congrui sconti.
Per ulteriori informazioni, nonché per eventuali prenotazioni è possibile rivolgersi,tutte le mattine negli orari d’ufficio, alla sede della Bibilioteca Comunale “M. De Angelis” via L.Rossi 1 (c/o Castello Ducale) o telefonare allo 0882-381941.

“PAOLO BORSELLINO, ESSENDO STATO”

“Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla, perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non piace per poterlo cambiare”.
Con questa breve riflessione Paolo Borsellino svela il senso più segreto del suo essere uomo e del suo essere giudice. La sua giovinezza e gli anni difficili della sua maturità sono ispirati ad una tensione vitale che oscilla tra passione per la memoria e progetto instancabile per una costruttività del futuro.
La sua singolare esperienza esistenziale porta con sé i tratti inequivocabili dell’eroe. Un eroe moderno. Un eroe lontano dalle tentazioni della retorica. Un eroe che si batte senza armi contro le armi; senza violenza contro la violenza; senza protervia contro omicidi, stragi, tradimenti. Forte unicamente della sua spiazzante lealtà intellettuale, di un intuito espresso a livelli altissimi, Paolo Borsellino è l’incarnazione di eroe psicologico in grado di sacrificare il proprio corpo e i propri affetti per un’idea: la giustizia.
Questo profilo di un artefice umano che costruisce il proprio coraggio per donarlo agli altri ha affascinato i grandi tragici dell’antichità, le letterature di tutti i tempi e di tutto il mondo. Le esistenze di Borsellino e Falcone hanno operato un mutamento insolito. Per molti giorni, per mesi, per una tenace minoranza tutt’oggi, gli italiani hanno assistito e partecipato con entusiasmo e dolore ad una vera e propria reincarnazione di ideali ispirati alla giustizia che deviazioni politiche e mafiose avevano tacitato sotto la polvere di una pretesa retorica. Lo Stato, l’appartenenza dei cittadini ad esso, l’equità, il coraggio, sono passati dallo stadio vuoto delle “parole” a quello limpido e inarrendevole dei “fatti”.
I cinquantasette giorni in cui Paolo Borsellino vive dopo la morte a Giovanni Falcone, fanno del giudice sopravvissuto un uomo solo, accerchiato da elementi deviati dello Stato e della politica, da Cosa Nostra e dall’indifferenza collettiva come prodotto culturale raffinatissimo atto a seppellire la verità.
Senza Falcone, senza l’uomo che Borsellino stesso definiva “il suo scudo”, il magistrato elabora la certezza matematica della propria fine.
A più riprese disegna come imminente la propria morte a colleghi ed amici con allusiva eleganza. Malgrado ciò rimane. Rimane in Sicilia, rimane a Palermo, rimane fedele a un’idea, a Falcone, a sé stesso. A condividere la sua coscienza della fine è innanzi tutto il mondo femminile, composto da sua madre, sua moglie, sua sorella, le sue figlie, oltre naturalmente a suo figlio Manfredi. Questa partecipazione silenziosa al destino di chi combatte in una sfida con un finale già scritto, torna a parlarci di una consapevolezza tutta classica in cui alla dignità dell’eroe fa riscontro la dignità di chi dovrà piangerlo e continuarlo ad amare nell’assenza del corpo.
La messinscena di Ruggero Cappuccio allinea accanto a Borsellino le figure di cinque donne, Antigoni, memorie di un’infanzia perduta intesa come età della perfezione, della bellezza. Il femminile distilla un’idea calda e solare della terra, in una parola della Sicilia stessa.
Il lavoro si sviluppa in un concentrato di suoni e immagini tese ad esaltare il contrasto tra la spudorata bellezza dell’isola e i suoi umori notturni. L’ironia si rivela come una qualità in grado di percorrere il dramma per svelarlo con più forza e più direzionalità in tutta la sua crudezza. L’azione prende l’avvio dal diciannove luglio 1992. Alle ore sedici e cinquantotto in via D’Amelio, a Palermo, un attentato pone fine alle vite del giudice e degli uomini che lo stavano proteggendo: Vincenzo Li Muli, Walter Cusina, Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi. Nell’ultimo decimo di secondo tra l’esplosione e la morte, Paolo Borsellino ricompone memorie e sogni della sua vita. Parla, racconta. Dubita di essere ancora vivo. Dubita di essere già morto. La messinscena deflagra in dodici movimenti, quanti sono quelli di uno Stabat Mater, addensando frasi, sussurri, visioni.
Ed è appunto uno Stabat Mater doloroso, la prima parte. Il giudice, quell’ultimo giorno, andava a far visita a sua madre: una madre consapevole, metafora e incarnazione del dolore cosciente e fiero di un’altra Sicilia, di quella più invisibile e più vera.



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